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Causa civile di lavoro

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view post Posted on 28/8/2015, 22:34     +1   -1
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Generalmente nelle cause civili e di lavoro, quanto tempo passa dall'ultima udienza (primo grado) alla pronuncia della sentenza? E dalla pronuncia della sentenza alla depositazione della sentenza? Quali sono i tempi?

Cioè, passata l'ultima udienza.......so che possono volerci fino a un max di 60 giorni per la pronuncia della sentenza (giusto?), e ora mi è parso di capire che dalla pronuncia alla depositazione possono passare pure altri mesi ancora.....è così?


Nel caso di una causa di lavoro, mettiamo caso che fosse vinta.......per lavorare bisogna aspettare la depositazione della sentenza? o basta la pronuncia?

Edited by *La Guerriera della Luce - 27/5/2016, 15:16
 
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Il Principe Del
view post Posted on 30/8/2015, 11:55     +1   +1   -1




Come ho già chiarito, diritto del lavoro non è la mia materia ma nel rito ordinario disciplinato dal codice di procedura civile dovrebbe funzionare così.

Una volta esaurita la discussione orale e dopo aver ascoltato le conclusioni delle parti, il giudice pronuncia in udienza la sentenza con cui definisce il giudizio, dando lettura del dispositivo ed esponendo le ragioni di fatto e di diritto che ne stanno a fondamento. La sentenza completa di motivazione verrà depositata in cancelleria successivamente. Se la controversia è particolarmente complessa il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore ai 60 giorni, per il deposito della sentenza (art. 429, comma 1, c.p.c.) mentre normalmente il termine è 15 giorni. Le sentenze che condannano al pagamento di crediti derivanti dai rapporti di lavoro indicati all'art. 409 c.p.c. a favore del lavoratore, sono provvisoriamente esecutive (comma 1, art. 431 c.p.c.). Per procedere tempestivamente all'esecuzione, mentre si è in attesa del deposito della sentenza, si può utilizzare la sola copia del dispositivo (ma questo vale solo per i crediti e non per la richiesta di riassunzione, perché c'è scritto crediti nell'articolo del codice e tra l'altro tali crediti devono essere pure liquidi). Qualora l'esecuzione possa produrre un danno gravissimo alla controparte, il giudice d'appello può sospendere, con ordinanza non impugnabile, tale esecuzione. La sospensione può anche essere solo parziale, ma resta garantita per un importo fino ad € 258,23.

Dopo la sentenza di primo grado, quindi dopo il deposito ed in attesa dell'appello eventuale (che va fatto entro 30 giorni dalla notifica della sentenza o entro 6 mesi dal deposito) la sentenza sarà provvisoriamente esecutiva.

Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, l’ordine di reintegrazione è incoercibile, vale a dire non suscettibile di esecuzione in forma specifica, in quanto generalmente si ritiene che la riammissione in azienda implichi un infungibile comportamento attuativo e collaborativo del datore di lavoro, il quale è l’unico soggetto legittimato ad impartire al lavoratore le direttive più opportune nell’ambito dell’organizzazione produttiva.

Emesso l’ordine di reintegrazione da parte del Giudice, il datore di lavoro è obbligato a riattivare di fatto il rapporto (già ricostituito di diritto) e a tal fine deve invitare il lavoratore a riprendere servizio.

Va, a tale riguardo, sottolineato che il lavoratore non ha alcun onere di attivarsi per rendere effettiva la riammissione in servizio (Cass. 11.7.1981 n. 4533; contra, ma immotivatamente, Cass. 7.9.1993 n. 9390).

L’invito a riprendere servizio non necessita di forme particolari, potendo perfino essere inviato dal legale del datore ancorché privo di mandato speciale (Cass. 13.1.1993 n. 314), ma deve essere formulato con carattere di concretezza e specificità tale da permettere l’effettivo reinserimento del dipendente nel posto di lavoro: non è quindi sufficiente l’invito accompagnato dalla precisazione della mancanza di mansioni da affidare al lavoratore (Cass. 20.2.1988 n. 1826) ovvero dalla riserva di far conoscere il giorno e il luogo della ripresa lavorativa (Cass. 24.3.1987 n. 2857), con la conseguenza che, in tal caso, il lavoratore che non si ripresenta al lavoro non può considerarsi in mora. Non ottempera all'ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato, il datore di lavoro che si limiti al pagamento della retribuzione senza effettiva riammissione in servizio del lavoratore (Pret. Milano 26.11.1992 e 22.12.1992, entrambe in Riv. crit. dir. lav., 1993, 449); in tal caso, il giudice può, ex art. 669 duodecies c.p.c., determinare le modalità di esecuzione del provvedimento stesso, ordinando al datore di lavoro di rimuovere gli ostacoli frapposti all'effettiva ripresa del lavoro da parte del dipendente.

Non sempre è possibile la ripresa in servizio: talvolta accade che nelle more del giudizio relativo all’impugnativa del licenziamento l’azienda cessi l’attività, e allora non potrà essere disposta dal Giudice la reintegrazione; in tal caso il lavoratore avrà diritto solo al risarcimento del danno da determinarsi con riferimento finale alla data di cessazione dell’attività (Cass. 13.2.1993 n. 1815). Rimane invece controverso, in tale ipotesi, il diritto del lavoratore a percepire l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Il datore di lavoro non potrà giustificare l’impossibilità della riammissione in servizio del lavoratore licenziato e la necessità di trasferirlo ad altra sede con l’avvenuta sostituzione con altro dipendente (Cass. 19.7.1995 n. 7822) o con la circostanza che i colleghi del reparto, cui era addetto il lavoratore licenziato, sono in Cassa Integrazione (Cass. 2.2.1990 n. 688), né tanto meno potrà collocarlo direttamente in Cassa Integrazione (Cass. 4.2.1993 n. 1360).

Una volta pervenuto l’invito del datore, il lavoratore ha l’alternativa di ripresentarsi al lavoro o di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione; in ogni caso la scelta va operata entro il termine di 30 giorni, perché in caso contrario il rapporto di lavoro è risolto di diritto senza poter pretendere più nulla. In realtà, si discute se il lavoratore non possa comunque avvalersi, ai fini dell’opzione per l’indennità alternativa alla reintegrazione, del diverso termine previsto dalla norma in relazione al deposito della sentenza (sul punto v. più avanti).

Può accadere che il lavoratore intenda accettare la reintegra, ma tuttavia non possa riprendere subito servizio, perché si trova in una delle situazioni previste dall’art. 2110 c.c. (malattia o infortunio): in questi casi, al fine di evitare la decadenza dal diritto alla reintegrazione, al lavoratore basterà manifestare, entro il termine di legge, anche con un comportamento concludente (quale, per esempio, la trasmissione del certificato medico) la volontà di aderire all’invito datoriale (Cass. 27.11.1979 n. 6216).

La mancata ripresa del servizio, anche se determinata da fatto non direttamente riconducibile al lavoratore, come ad esempio nel caso in cui questo sia detenuto, comporta - come si è già detto - la risoluzione del rapporto (Cass. 27.8.1991 n. 9166).

E’ largamente prevalente l’orientamento che ritiene che la riammissione al lavoro debba avvenire esclusivamente nello stesso posto di lavoro e nella stessa sede ove il dipendente prestava l’attività prima del licenziamento, salva la possibilità di una successiva assegnazione a mansioni diverse ma equivalenti o di un trasferimento ad altra sede ove ricorrano apprezzabili esigenze tecnico-organizzative secondo il disposto dell’art. 2103 c.c. (Cass. 24.11.1993 n. 11578), ma non mancano decisioni in senso contrario che reputano legittimo il trasferimento contestuale (Cass. 1.12.1994 n. 10284).

Occorre, comunque, precisare che i motivi che determinano la necessità dello ius variandi non possono essere costituiti da esigenze che derivano dallo stesso licenziamento, per cui il datore di lavoro non può giustificare il trasferimento con il fatto che il posto di lavoro sia stato soppresso ovvero assegnato ad altro dipendente (Cass. 4.2.1993 n. 1360).

Edited by *La Guerriera della Luce - 27/5/2016, 15:16
 
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view post Posted on 30/8/2015, 12:33     +1   -1
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Grazie! :)

Edited by *La Guerriera della Luce - 27/5/2016, 15:16
 
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